mercoledì 30 aprile 2008

Sinistra democratica che fare?

Pubblicato sull'Unità da Salvi e Villone.
Dopo la pesante sconfitta del 13 e 14 aprile, è ineludibile la domanda: serve ancora Sinistra democratica? Noi pensiamo che possa servire, perché c'è in Italia uno spazio politico, sociale e culturale a sinistra del PD, e perché in campagna elettorale i quadri e i militanti di SD hanno mostrato di esserci, numerosi e combattivi.Per rilanciare l'iniziativa di SD, bisogna però recuperare due elementi centrali nella nostra originaria proposta, - la cultura di governo e l'identità socialista - abbandonati nei successivi drammatici mesi, e bisogna dare una struttura, leggera e democratica, al nostro movimento.Il 5 maggio dell'anno scorso parlammo (tra l'altro) di una "sinistra di governo". Questa non c'è stata nell'ultimo biennio, e non per nostra responsabilità. Sia ben chiaro, non parliamo di una sinistra che voglia governare ad ogni costo, e che subordini tutto alla conquista e al mantenimento del potere. Questa è stata la strada seguita dalla maggioranza dei DS prima e dal PD poi. Ha portato anche loro a una pesante sconfitta. Parliamo di una sinistra che parta dai suoi ideali e dai suoi valori, e da una cultura critica del mondo in cui viviamo. Ma che sappia tradurre gli uni e l'altra anzitutto nel radicamento nella società, in secondo luogo in concrete indicazioni per il cambiamento, infine in una credibile proposta politica, a partire dalle alleanze (politiche e sociali). E si ponga quindi l'obiettivo di costruire un nuovo centro-sinistra.Seconda questione. Ci siamo chiamati "Sinistra democratica per il socialismo europeo". Ma la seconda parte del nostro nome è scomparsa. Va ripresa e rilanciata. Anche perché esiste in Italia un mondo socialista (una cultura politica, e un elettorato potenziale) certamente non limitato allo zero virgola qualcosa per cento. E' possibile che affermare la nostra identità socialista ponga un problema a una parte delle forze con cui va costruito il nuovo partito della sinistra. Ma questa difficoltà non è una ragione sufficiente per rimuovere il tema. Anche perché sarebbe riduttivo chiamarsi socialisti solo per definire un'identità o un'appartenenza organizzativa. Socialismo oggi vuol dire porre il tema del governo, nei termini che abbiamo cercato prima di indicare sommariamente. Del resto, se stessimo in un altro paese europeo saremmo nel partito socialista di quel paese, e ne costituiremmo l'ala sinistra.Infine, il percorso delle prossime settimane. Dobbiamo assumere scelte politiche di fondo, e le conseguenti iniziative nel paese e verso gli altri partiti della sinistra; decidere il necessario rinnovamento del gruppo dirigente; assicurare la presenza nel territorio.L'idea che sarebbe stato inutile, anzi dannoso, darsi un minimo di regole e di struttura (per evitare di fondare un nuovo "partitino") si è rivelata alla prova dei fatti un'illusione. L'illusione di avere più tempo, e l'illusione che comunque il nuovo soggetto politico della sinistra (unitario e plurale) era a portata di mano. Così non è stato e non è.Per questo riteniamo che Sinistra democratica deve darsi da subito una struttura, leggera e democratica. Come farlo?Fra le molte promesse mancate di Sinistra Democratica troviamo di certo quella di un nuovo modo di far politica. La critica alla riduzione oligarchica dei processi democratici, alla mancanza di partecipazione da parte di iscritti e militanti, alla assunzione di decisioni in sedi ristrette e poco trasparenti era stata per molti decisiva nella scelta di uscire dai DS con l'ultimo congresso. Pensavamo che nel PD non sarebbe andata meglio. Anche per questo abbiamo scelto un'altra strada. Ma quella che abbiamo preso non ha realizzato le speranze.Pensiamo che, dopo la catastrofe del voto, la musica debba cambiare. Abbiamo affrontato una campagna elettorale difficilissima. Compagne e compagni in tutto il paese si sono battuti fino all'ultimo, per un risultato che diventava ogni giorno più difficile. Ora, dopo il terremoto, a loro dobbiamo rivolgerci perché indichino la strada da seguire e scelgano il nuovo gruppo dirigente.Per questo non ci persuade l'idea di tornare al Comitato promotore, perché elegga un altro coordinatore, che formi una nuova presidenza, che apra un dibattito dai contorni e delle modalità imprecisate. Il Comitato promotore era ed è in buona parte diretta filiazione del congresso DS. Doveva avere una funzione transitoria, e per questo il nostro Statuto provvisorio - consultabile sul sito - gli assegna esclusivamente il compito di "lanciare la fase di adesione al Movimento". Quella fase è alle nostre spalle. E' giusto e corretto che a partecipare e a decidere le scelte di oggi siano le compagne e i compagni che oggi, qui ed ora, hanno fatto o confermato le loro scelte e sono scesi in campo.Proponiamo un altro percorso per SD. Un percorso innovativo, un pezzo di riforma della politica. Convocare al più presto assemblee territoriali, per esempio a livello provinciale, di tutte le compagne e i compagni che hanno aderito a SD, hanno partecipato alla campagna elettorale, e intendono proseguire il loro impegno nel nostro Movimento. Assemblee aperte a tutti quelli che a sinistra volessero partecipare e contribuire. Assemblee che sarebbero per noi l'equivalente di una grande primaria democratica sul progetto, perché convocate per discutere di politica, e non per l'elezione plebiscitaria di un leader. E che, sulla base della discussione politica, eleggano i propri rappresentanti per una grande Assemblea nazionale chiamata a decidere, entro giugno, sulla linea politica e sul nuovo gruppo dirigente nazionale. Noi e la sinistra abbiamo bisogno di cambiamento vero. E non possiamo consentirci altri errori. Il primo errore sarebbe non dare la parola, per decidere davvero, a tutti coloro che si sono guadagnati sul campo tale diritto.

martedì 29 aprile 2008

Analisi del voto - politiche 13-14 aprile 2008

Con il risultato elettorale del 13-14 aprile è terminata la lunga transizione che ha condotto l’Italia verso un sistema politico fondato sul bipolarismo.

Chi è fuori dai due grandi poli, facenti capo a PD e PDL, o comunque non stabilisse con questi rapporti strategici e programmatici, sarà tagliato dal sistema delle decisioni. Certamente avrà un ruolo residuale e marginale all’interno di qualunque assemblea elettiva. Rispetto a ciò, nei prossimi anni, difficilmente si tornerà indietro. Qualunque analisi sul voto o su ciò che siamo e saremo, non potrà prescindere da questa valutazione.

Il successo della lega ha praticamente affossato, per ora, l’idea Veltroniana di realizzare in Italia il bipartitismo, e questo, pur nello sfacelo, terrà aperta la porta alla pluralità della rappresentanza parlamentare. Paradossale che il nostro futuro ritorno in parlamento, sia stato garantito dalla Lega!

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In questi giorni, autorevoli esponenti della Fu Sinistra Arcobaleno si sono affrettati ad addebitare la sconfitta al meccanismo contorto della Legge elettorale e al cannibalismo del PD, il quale sarebbe riuscito a far passare la teoria del voto utile diffondendo falsi sondaggi.

Sia la Legge elettorale, sia l’appello al voto utile, a mio modo di vedere, hanno influenzato e non poco il risultato elettorale, ma quest’analisi da sola è insufficiente per spiegare l’estromissione della sinistra dal parlamento, anzi tali cause le considero addirittura marginali.

I risultati elettorali di una forza politica non possono discendere solo ed esclusivamente dal momento della campagna elettorale. Se fosse vero questo, il PD avrebbe stravinto, posto che sul piano della comunicazione e del “marketing” elettorale, è stato travolgente.

Se circa il 75% del nostro elettorato storico, qualcosa come 2,5 milioni di elettori – in Sardegna 83 mila - ha deciso di non votarci o di votare altri partiti, significa che si è rotto un meccanismo. Moti dei cittadini che ora non ci hanno votato potrebbero votarci ancora in futuro, ma questo non avverrà più su basi identitarie. Dobbiamo riflettere su questo.

Sulla base di queste considerazioni, le reazioni di Ferrero e di Diliberto sono sbagliate, come sbagliate sono le risposte date dai partiti dell’arcobaleno, in essi si è avviata una violenta resa dei conti che addebita le ragioni della sconfitta sia ai propri leader, sia alla scelta di abbandonare i simboli storici del comunismo.


Nelle analisi sul voto stentano ad emergere valutazione più approfondite. Infatti, sarebbe più utile domandarsi per quale motivo gli elettori avrebbero dovuto credere ad un progetto come quello della Sinistra Arcobaleno, se nei fatti i loro attori costituenti erano i primi a non crederci? Il cambio di maggioranza in Rifondazione Comunista, l’appello all’unità dei comunisti lanciato da Rizzo e Diliberto e la richiesta d’asilo dei Verdi al PD, sono condotte la cui riflessione è avvenuta ben prima delle elezioni e tutte queste contraddizioni sono emerse in campagna elettorale.

Le cause della sconfitta più che su questioni sovrastrutturali (legge elettorale, simboli, voto utile), si dovrebbero cercare in quelle strutturali. La sinistra ha, soprattutto in questi anni, dato risposte semplici a questioni complesse. Ha perso la connessione con la realtà, abbandonando inesorabilmente il terreno della cultura materiale.

In questi anni, nonostante fossimo forza di governo, non si è riusciti a costruire politiche per migliorare i rapporti sociali, per intervenire sulla crisi salariale, per dare risposta alla crescente insicurezza delle città. Abbiamo piuttosto fatto l’opposizione, assumendo spesso posizioni antagoniste, ora chiamando la piazza, ora smentendo la piazza. E anche quando siamo stati propositivi, non siamo riusciti a comunicarlo in maniera unitaria ed efficace.

Che risposte abbiamo dato concretamente agli operai, ai disoccupati, agli artigiani. Guardiamo ad esempio il sistema agricolo italiano, sul quale si è abbattuta violenta la mannaia della globalizzazione; pensiamo ai problemi legati alla sovranità alimentare o all’uso della terra come bene comune; pensiamo a come il problema dell’energia abbia depauperato le famiglie e disintegrato il reddito degli italiani. Quali sono state le nostre risposte? E relativamente al rapporto tra migranti e popolazioni indigene, quali sono state le soluzioni adottate per favorire una convivenza equilibrata fra gli uni e gli altri?

E’ da queste analisi che si deve partire, pena l’impossibilità di comprendere la disfatta.

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Un discorso ancora più specifico merita la situazione di Sinistra Democratica. Essa, in un anno, si è mantenuta sul provvisorio, senza regole e senza rappresentanza democratica, con un gruppo dirigente autoreferenziale e costituito sulla base di logiche e decisioni il cui senso s’era perso con lo scioglimento dei DS. Qualunque decisione è stata sempre percepita come imposizione. Si è dato per scontato che i compagni e le compagne fossero soldatini allineati e coperti; accondiscendenti per appartenenza.

In questo anno, Sinistra Democratica, si è ripiegata su Rifondazione Comunista, rinunciando ad avere una propria proposta politica. Il movimento si è svuotato via via, lasciandosi dietro forze importanti e affievolendo passo dopo passo, il progetto del socialismo europeo.
Dopo il fallimento dell’Arcobaleno e la conseguente reazione di PRC e PDCI, siamo a rischio estinzione. E’ infatti iniziata la grande migrazione verso il PD. In quest’anno scorso i pezzi si perdevano ad uno ad uno, ora siamo sull’orlo della valanga. Valanga già in movimento! Sono decine i compagni che mi chiamano per comunicarmi di aver scelto altro!



Che fare? Così scriveva Lenin nel 1902, proprio per segnare la distanza fra la coscienza rivoluzionaria della massa e quella dei dirigenti del marxismo economicista legale e quello del marxismo illegale.

Ciò che dobbiamo fare, a parer mio, è quello di risintonizzare le nostre frequenze con la società reale. Dobbiamo rimpadronirci della capacità di fare analisi, di fare programmazione e pensare a strategie i cui effetti si misurino sul breve periodo, ma che contemporaneamente abbiano la robustezza per produrre effetti duraturi.

Compagne e compagni, serve una sinistra del fare. Dobbiamo far cadere le bende dell’ideologia, o continueremo a invocare un mondo ideale senza far nulla per renderlo tale. Basta con la politica dell’emergenza e dello straordinario. Basta con i piani straordinari per il lavoro. Basta con i piani di rinascita.

Sul piano della politica mediata, poi, è necessario uscire dalla logica delle fusioni fra sigle e simboli di partito.

In questo periodo si fa un gran parlare di elezioni regionali in Sardegna, prospettando esclusivamente soluzioni tattiche e mai proposte progettuali e programmatiche. Sembrerebbe che tutto possa concludersi con un accordo fra sinistra, socialisti e sardisti.

Sono convinto che si perseveri nell’errore. Soprattutto perché quando si parla di questi accordi, in realtà, si sta pensando alla mera contrattazione fra gestori di sigle. Spesso si disconosce persino il contenuto di quelle sigle, infatti non è la sigla che fa i socialisti o i sardisti, né il possesso di un simbolo o di un “logo”.

Basterebbe sapere che una parte (forse maggioritaria) del PSD’Az, sta contrattando un accordo elettorale con il centrodestra, che che ne avesse pensato Lussu. Basta questo a dimostrare quale sia la distanza fra la politica vera e quella dei suoi gestori.

Serve a poco dare vita a comitati elettorali la cui unica funzione sia quella di mantenere o far acquisire il potere a singole persone. Prima di pensare ad accordi o a tattiche in chiave elettorale, dovremmo chiarirci bene chi siamo, dove vogliamo andare e chi sia legittimato a guidare i processi attuali e futuri. Soprattutto, chi siano i nostri referenti, se la società o i gestori delle sigle.

Si deve avviare, tempestivamente, un processo di democrazia interna che parta dal Nazionale per giungere al Regionale e al Provinciale. Basta con i reggenti o con gli organismi cooptati, monocratici e autoreferenziali.

Il senso delle dimissioni del coordinamento della provincia di Cagliari è proprio qui. Cioè quello di far partire una fase di piena legittimazione dell’azione politica, a tutti i livelli.

Sul dove vogliamo andare, il ragionamento si fa ancora più serio.

Sono convinto sia necessario gettare le basi per la costruzione di un soggetto politico di sinistra veramente nuovo, che abbia una chiara vocazione maggioritaria.

Il percorso intrapreso da Rifondazione non mi convince per nulla, tanto meno quello della costituente comunista del PDCI.

La strada, a questo punto, non è quella di fare un congresso per richiuderci nel recinto del nostro simbolo. Dovremmo aprirci ad un altro ragionamento. Dobbiamo diventare i promotori di una costituente che abbia la capacità di far rinascere la sinistra in senso orizzontale. Bisognerebbe capire se i sardisti siano tutti d’accordo con la svolta a destra, o se i socialisti si sentano pienamente rappresentati dai gestori di quel simbolo. Se così non fosse, potrebbero diventare ottimi interlocutori per la costruzione di un programma per la Sardegna e per la sinistra sarda.

Sinistra democratica se veramente vuole avere la capacità d’incidere, deve aprirsi senza indugio, azzerando ogni rendita di posizione e favorendo la nascita DELLA SINISTRA DEMOCRATICA SARDA. Questo processo dovrà fondarsi sulla piena autonomia rispetto al nazionale, con il quale certamente si attiveranno, se possibile, futuri percorsi federativi.

I responsabili delle rivolte per il pane

Molti analisti internazionali e personalità di spicco, incluso l'ex premier Prodi, hanno da poco scoperto la crisi alimentare che sta generando rivolte in gran parte del Sud del mondo. Un fenomeno che si va ad aggiungere alle molto più dibattute crisi energetica e finanziaria. Ovviamente l'esercizio di individuazione delle cause della "crisi del pane e del riso" è stato fatto da molti, sottolineando la fantomatica ed imprevedibile complessità della globalizzazione che genera queste storture con i suoi cambiamenti veloci in diverse parti del pianeta: la domanda rapidamente crescente di India e Cina - inclusa quella per prodotti alimentari "superiori", come la carne, che richiedono più utilizzo di prodotti della terra, quali i cereali come mangimi per animali - l'aumento del prezzo del petrolio e dei prodotti derivati per l'agricoltura, tra cui i pesticidi chimici, e poi l'impatto dei cambiamenti climatici sulla resa delle produzioni agricole che si manifesta in maniera sempre più reale, soprattutto nei paesi più poveri dell'Africa sub-Sahariana e nel Sud dell'Asia.
Ma è la nuova "competizione" tra cibo e prodotti agricoli per fini energetici, ossia i biocombustibili, che ha generato più analisi e preoccupazioni. Che di "bufala" si trattasse, quella dei biocombustibili in alternativa a quelli fossili per arrestare il riscaldamento globale, è subito diventato chiaro, anche se Usa, Ue e Brasile hanno prima cercato di spingere nuove colture su larga scala a vantaggio delle solite compagnie energetiche "fossili" per poi avviare un'ipocrita discussione sul ripensamento da fare. Emblematico l'atteggiamento in tal senso della Commissione europea, sempre pronta a fare la prima della classe quando il danno è già fatto.
Ma mentre il legame tra crisi energetica e crisi del cibo è stato individuato, quello tra crisi finanziaria e guerra del pane non viene stranamente mai discusso.
La Banca mondiale da Washington ha concluso i suoi incontri di Primavera con il Presidente Zoellick - capo negoziatore Usa al commercio per anni ed esperto di sussidi agricoli perversi e liberalizzazioni a scapito della sovranità alimentare del sud del mondo - che, sacco di riso di aiuti alimentari in mano, ha chiesto più cibo per i poveri affamati. Ma non sarebbe politically correct per i burocrati di Washington ammettere che una parte importante dell'aumento dei prezzi è dovuto a fenomeni finanziari puramente speculativi, come nel caso del prezzo del greggio. Anche più del 20 per cento del prezzo.
Eppure dopo decenni il trend del prezzo delle materie prime e delle derrate alimentari si è invertito al rialzo, un fenomeno in teoria positivo per i paesi del Sud, forzati negli ultimi due decenni di aggiustamenti strutturali ad esportare pochi prodotti di base con prezzi sempre in discesa. Tuttavia la volatilità dei prezzi è sempre elevata e fa sì che gli speculatori facciano il bello e cattivo tempo, a partire da hedge funds e altri attori che giocano d'azzardo nel breve termine sul mercato dei derivati. Almeno l'Unctad, l'agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di commercio e sviluppo, al suo vertice di Accra qualche giorno fa ha avuto il coraggio di ammettere chi sono i veri artefici e beneficiari di questa crisi alimentare. Nelle parole di Thomas Lines, dell'Agribusiness Accountability Iniatiative, "la crisi del credito ha spinto gli investitori a ritirare i propri fondi dal mercato azionario, da quello immobiliare e dai derivati finanziari ed a speculare invece sui future del grano e della farina, sul mercato del greggio e di altre commodity essenziali." Letteralmente arricchirsi sulla fame dei poveri in maniera impunita, senza che le Banche Centrali del Nord del pianeta dica nulla.
Si aggiunga che il tutto avviene dopo che forsennate liberalizzazioni commerciali imposte dai paesi ricchi hanno favorito le grandi concentrazioni della distribuzione - oggi 5 trader controllano circa la metà del mercato agricolo globale! - generando una dittatura di pochi che, tramite uno scarno 12 per cento della produzione mondiale che va sui mercati internazionali, impongono i prezzi del rimane 88 per cento che rimane sui mercati locali. Un gioco da ragazzi quindi per gli attori finanziari giocare nel breve termine sulle operazioni dei grandi trader o forse con la loro complicità.
Sembra surreale, ma in questo mondo post-fordista in piena crisi finanziaria ed incamminato verso la recessione nei paesi ricchi la questione agricola rimane centrale alla possibilità di accumulazione nel Nord del mondo, di controllo sociale nelle economie emergenti, e di sopravvivenza nei paesi più poveri. Solo con una sovranità alimentare ed il corollario del controllo diretto della terra da parte di chi la lavora - anch'essa sempre più oggetto di bolle speculative da parte dei private equity fund negli ultimi mesi - si sconfiggerà la fame e non si avranno più crisi alimentari. Ma sarebbe troppo per i "globalizzatori compassionevoli", oggi in crisi di legittimità, ammettere che le liberalizzazioni commerciali e dei capitali affamano proprio i più poveri.
* Antonio Tricarico - CRBM (Campagna per la riforma della banca mondiale)